venerdì 3 gennaio 2014

Quando i cicci si castrano da soli



La professoressa Fall Ferguson dell'HAES blog ha il merito di aver posto le basi di una discussione fondamentale che riguarda l'autocensura di cicce e cicce nei confronti del mondo esterno, quando cioè la discriminazione diventa un aspetto del carattere dell'individuo discriminato. Ne ha scritto un articolo con riferimenti diretti ad alcuni studi comportamentali e che, in definitiva, apre le porte alla sofìa della discriminazione. Molti cicci e molte cicce nel leggere ritroveranno pezzi della propria vita. Ecco una sintesi dei passaggi chiave di questo intervento:

Il processo di stigmatizzazione è sostanzialmente la produzione dell'altro da sé. Sono tre le forme di discriminazione che danno vita a questo processo. Due di queste le conosciamo bene:
1. un trattamento intenzionale, diretto, discriminatorio
2. la condanna strutturale che diventa fondante di un sistema sociale (Nel momento in cui qualcuno viene sistematicamente o intenzionalmente escluso è facile comprendere quanto lo stigma rappresenti un ostacolo alla comunità e alla connessione tra gli individui).

Il terzo punto è forse il più interessante:
3. quella sottile e insidiosa forma di discriminazione che avviene a causa di incontri inopportuni e sensibilità puntute, basata cioè sulle nostre percezioni di come veniamo percepiti dagli altri.
Questo avviene quando evitiamo opportunità di connessione con gli altri perché leggiamo tra le righe del comportamento sociale e capiamo che non siamo i benvenuti. Ci tiriamo fuori dalla comunità (o non vi entriamo proprio) perché è troppo difficile, scomodo o doloroso rimanervi. Ce ne andiamo ancor prima che qualcuno ci "spinga" a farlo.

Il risultato di tutto questo sono interazioni sociali tese e imbarazzanti, reti sociali ridotte, una qualità di vita compromessa, bassa autostima, sintomi depressivi, disoccupazione e riduzione del reddito.

Non è difficile capire quanto questo genere di "discriminazione di ritorno" passi sotto il radar e di come non venga neppure presa in considerazione dalla stragrande maggioranza di coloro che si occupano di obesità. Anzi, a pensarci, non è difficile in un contesto come quello descritto immaginare alzate di spalle e l'immancabile "ma nessuno ha detto che doveva andar via".

"Molti di noi - spiega Fall - concepiscono lo stigma come qualcosa che condiziona la salute in un modo piuttosto astratto, anche coloro che ne sono vittime. In particolare, ci si potrebbe focalizzare sullo stress da emarginazione, ma ci sono anche altri meccanismi distruttivi e immediati che dovremmo considerare. Non molto tempo fa mi è capitato di lasciare un ambiente sociale a causa di un portatore d'odio verso chi non è normoforma. Per un certo tempo, mi sono sentita in torto e senza speranza in un modo che penetrava ogni aspetto della mia vita. Un altro membro di quella comunità ha intuito cosa stesse accadendo e mi ha sostenuto, cosa che ha reso tutto molto diverso. Quell'aggressore è ancora là, ma anche io, e anche se non è bello sapere che c'è, al momento riesco a gestirlo. Per la maggiorparte del tempo sono in grado di ricordarmi che il problema è suo, non mio".

"Non si tratta - continua Fall - di una storia particolarmente originale, ma credo sia descrittiva di cosa stavamo parlando: lo Stigma include una esperienza traumatica viscerale che vive nei nostri corpi e può paralizzare la nostra capacità di interconnetterci con gli altri. L'esperienza di essere vittima di un individuo, nello specifico una donna di mezza età, mi ha spinto a rivivere la vergogna e la frustrazione che ricordo quando venivo presa in giro da bambina".

Il punto, evidentemente, è che quando lo stigma si produce all'interno di un ambiente sociale circoscritto, la percezione che ne abbiamo è globale, e la frustrazione che produce non si limita solo a quell'ambiente. E difendersi è difficilissimo, come spiega Fall: "Lo Stigma distrugge tutto, anche chi è privilegiato come me. Sono una donna etero, bianca, con una famiglia che mi sostiene. Sono un docente universitario. Come avvocato, ho portato in aula casi di discriminazione. Partecipo a diverse comunità ed esperienze. Ciò nonostante il mio istinto primario in quel caso era quello di andarmene, di scappare, di chiudere le mie connessioni sociali, di ritirarmi volontariamente da una comunità che considero importante per la mia vita, e tutto a causa di un bullo".

Questo racconto aiuta evidentemente a comprendere quanto concreti e profondi siano gli effetti dello Stigma sulla salute dell'individuo, anche di chi è culturalmente preparato e può difendersi meglio. A questo si aggiunge che la ripetizione di episodi di discriminazione nella vita di un individuo sembra assumere un effetto moltiplicatore, portando ad una ulteriore sensazione di isolamento sociale.

Fare comunità
Come reagire? Fall spiega, dati alla mano, che la soluzione è proprio quella di "building community", costruire comunità, riuscire a creare connessioni gli uni con gli altri in tutti i contesti della nostra vita. Negli Stati Uniti centinaia di blog si occupano dell'approccio HAES di cui parla HAESblog, blog che spesso hanno consentito a individui lontani e diversi a trovare punti di contatto e difesa comune, e ad una intera nuova cultura di crescere. Non deve sorprendere quindi, se Cicciones, il blog che stai leggendo, lavora con e per HAES, ciò che invece deve mettere in allarme è che questo blog è al momento l'unico avamposto di questo nuovo approccio alla salute dell'individuo qui in Italia. Un blog non è infatti una comunità, ma è di una comunità che noi tutti abbiamo bisogno, di nuove connessioni.

L'articolo originale si trova a questo indirizzo.

(fonte dipinto)

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